Kathmandu non è solo la capitale di un Paese con il tetto del mondo sullo sfondo. È oggi l’epicentro di una rivolta che ricorda al mondo una verità semplice: nessun sistema politico sopravvive se si fonda su corruzione, disuguaglianza e privilegio.
La miccia è stata l’oscuramento di 26 piattaforme digitali, presentato come misura di ordine pubblico. Ma il vero combustibile era già ovunque: anni di nepotismo, blackout sistematici, salari incapaci di coprire i beni essenziali, giovani costretti a emigrare in Qatar o Malesia per lavori precari.
Dall’altra parte, una classe dirigente arroccata nei propri palazzi, tra SUV di lusso e figli iscritti ad università straniere, mentre al popolo restano strade dissestate e acqua torbida nei villaggi.
La repressione non ha fermato i giovani: Kathmandu è divenuta teatro di scontri durissimi, con morti, feriti e dimissioni forzate del Primo Ministro Oli. Non per scelta, ma perché non restavano più porte dietro cui nascondersi.
La protesta ha cambiato volto: non più richiesta di riattivare TikTok, ma domanda di dignità, equità e giustizia. È il rifiuto di una democrazia svuotata, ridotta a copertura per quattro famiglie e un’élite arricchita.
In Nepal, la Generazione Z non sta cercando un hashtag: sta chiedendo un futuro.
Il messaggio che arriva da Kathmandu è universale: si possono spegnere server e aeroporti, ma non si può spegnere la fame né la sete di giustizia. Quando un popolo affamato guarda le ville sulle colline, non pensa a internet ma a quanto basta per ridurle in cenere.
La comunità internazionale non può voltarsi dall’altra parte. Non è questione di “ordine pubblico locale”: è un allarme globale sulla fragilità di governi che, in tutto il mondo, confondono consenso con rassegnazione.
La rivolta nepalese dimostra che la nuova scalata non è all’Everest, ma al diritto di vivere con dignità.
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